Capita che durante la lunga reclusione per l’emergenza sanitaria in corso una persona come me, che da sempre legge e scrive (quasi soltanto) di artisti del passato, soprattutto di scrittori, poeti e filosofi a cavallo tra Ottocento e Novecento di area prevalentemente francese, si trovi a scoprire in un artista giovane, classe 1990, una «foresta di simboli» in cui risuona così tanto di sé e di tutte le sue passioni. Non solo a scoprire, ma dopo aver passato circa due mesi e oltre ad ascoltare tutte le sue canzoni, aver letto il suo caleidoscopico libro Sono io Amleto (edizioni Rizzoli, prefazione di Marta Boggione, meravigliosamente illustrato da artisti contemporanei), averne seguito le performance sanremesi (in cui, lo ricordiamo, ha portato sul palco la sua Me ne frego nei panni di San Francesco, la Marchesa Luisa Casati Stampa e Elisabetta I Tudor, e nel duetto con Annalisa sulle note della sublime Gli uomini non cambiano uno dei tanti alter ego di David Bowie, Ziggy Stardust), capita che capisca di esserne ormai definitivamente conquistata.
Sto parlando naturalmente di Achille Lauro.
Da giorni aspetto l’uscita del suo nuovo singolo, “16 marzo”. Annunciato dall’artista sulle sue pagine social a partire appunto dal 16 marzo con diversi indizi (foto, pagine in stile diario di bordo, sassolini sparsi e qua e là, chiavi di lettura che mi hanno richiesto sempre molta attenzione nella visione e nell’ascolto nel tentativo di penetrare negli «arcani» del suo mondo), finalmente oggi, 3 aprile, la nuova canzone è in radio e tutti i Digital Store.
Ho letto il testo qualche ora fa.
Il testo che Lauro ha scritto e composto con la sua band in questo periodo di quarantena. Il 16 marzo aveva fornito l’indicazione principale: «Questa notte ho scritto una lettera a una ragazza. / L’ho chiamata come il giorno in cui gliel’ho dedicata. / Come il mese dei nuovi amori. / Quel mese in cui una donna torna da chi non la starà cercando più. / Come me. / “16 marzo”. / Fuori ad aprile». Criptico. Ermetico. Ungarettiano se vogliamo. Ancora non diceva che si trattava di un nuovo singolo. Ma procedendo à rebours attraverso i “sassolini” da lui sparsi, è già tutto in quell’annuncio. È una canzone d’amore, sì. Una canzone dedicata a una ragazza. Una lettera. Chi non ha scritto almeno una lettera d’amore nella vita?
«Le lettere d’amore fanno solo ridere / solo chi non ha scritto mai lettere d’amore fa veramente ridere», cantava Vecchioni nella splendida canzone dedicata a Ferdinando Pessoa.
«So I’ve been writing just for you», gli fa eco uno dei maestri della musica, amatissimo da Lauro, David Bowie, nella sua Letter to Hermione di dannunziana memoria…
Se ne frega dunque, Achille Lauro il Santo, la Marchesa, la Regina, l’Idol Immortale, il «deliquente» ai margini pieno di tatuaggi, il «ragazzo madre», se la sua lettera-canzone fa ridere. Lui scrive. Canta. Quello che conta è scrivere, diceva sempre Vecchioni, e Lauro qui lo fa con tutto il cuore, la rabbia, il dolore e la delusione di chi ha amato colei che “se ne va”, colei che “non ha mai pianto”:
«te ne vai / come io fossi niente / […] te ne vai / perché non c’è più niente da prendere»
scrive su sonorità malinconiche ed energiche, ricche di sound punk anni Ottanta eppure del tutto originali, in cui sembra di vedere l’idolo Bowie sorridere compiaciuto di questo ragazzo che un anno fa componeva Rolls Royce e ora, senza rinnegare il suo passato artistico e soprattutto umano, ha decisamente fatto un passo in più, un passo oltre, verso un altrove che forse neanche lui conosce ancora. Sa bene però che lo sta percorrendo, quell’altrove, ovunque esso porti, probabilmente anywhere out the world… E lo percorre con dedizione, determinazione, impegno, da sempre. “Sporca fogli” con le sue poesie da quando è ragazzino e ne legge tante, si sente. Ricorda il giovane Rimbaud di Une Saison à l’enfer: «scrivevo silenzi, notti, annotavo l’inesprimibile». Il poeta mago, che attraverso una «lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi» (immagino che ne sappia qualcosa) si fa veggente e riesce come Baudelaire a comprendere «il linguaggio dei fiori e delle cose mute».
Questo amore è ormai morto (l’annuncio di ieri dell’uscita del singolo è accompagnato da un fiore appassito, omaggio a De André forse, e a Battiato), il silenzio è sceso su colei per cui
«l’amore dura un anno / perché te sai solo cancellarlo / vuoi solo chi non ti sta cercando più».
Un «essere di fuga», lei, una «creatura in assenza», innamorata dell’amore ma non di un uomo, non di lui, capricciosa come la femme fatale di Me ne frego, «instabile, fragile, è una strega, solo favole»… Favole, sirene incantatrici a cui lui ha scelto di credere. Non è mai vittima, anzi, è perfettamente consapevole delle regole del gioco. Ma «chi gioca [non con il cuore] è troppo serio per volere che sia un gioco mortale», scriveva una poetessa morta suicida a ventisei anni, Antonia Pozzi. Quando il poeta, il cantante, l’uomo, l’amante ha capito il male che fa questo gioco, dopo esserci «cascato di nuovo», ancora e ancora, decide di interrompere. Di non giocare più. E se ne va. Lui. Perché «un po’ ne ho voglia, / un po’ perché»…
Se ne va perché è lui che decide e non subisce, e anche se con il cuore a pezzi e le ossa rotte dice «No». Lui sa chi è, sa cosa vuole, sa cosa cerca. Sa che «non è noi». Sono, o meglio erano due solitudini che si sono incontrate, sa che lui ha messo a nudo il suo cuore. Lei no. O se lo ha fatto, a lui non è bastato.
Se ne va senza rimpianti, perché «ciò che si fa per Amore è sempre al di là del bene e del male», insegna Nietzsche, citato o richiamato spesso dall’autore anche nel suo libro a partire dalle prime pagine stile Ecce homo. Se ne va ma soffre. Soffre perché ha amato, ha “sentito”, e quindi ha (ancora) bisogno di scrivere a lei, di lei, che non sa «che cosa sono i “non si può”».
«Bisogna sentire. Nella parte più profonda della tua anima (perché non è nel cuore né nella testa ma più lontano, più in alto) c’è un grande lago dove tutto si riflette, un mormorio perpetuo che si espande, una fluidità che vuole uscire», dichiarava Flaubert a Louise Colet, un’altra creatura assetata di vita. Alla fine di questa canzone dell’amore perduto, rapsodia dolente, rabbiosa, fiera, “ballata generazionale”, come si è detto?, sicuramente ballata personale, il cercatore di assoluto, l’alchimista che con il fango di questo amore ha creato la magia, è lui.
Lui è lo scrittore, il cantautore, l’artista, il «bohémien», il «trendy», colui che rende questo amore immortale perché scolpito nelle sue «povere parole» in musica e consegnate, sbattute in faccia a lei e a chiunque vorrà ascoltarle.
Lui, sofferente come un poeta, un pazzo, un innamorato, un «pezzo muto di carne che la primavera percorre con ridenti dolori». Una primavera che più cupa di queste non si potrebbe, dove tuttavia ciò che risuona altissima è ancora una volta la musica, l’arte, la vita. La capacità e il coraggio di dire “sì alla vita”.
L’amore.
Il loro amore è ormai negato, finito, morto? Può darsi. Del resto la stagione dell’amore viene e va. La poesia, il canto resta.
«Quando tutto sarà morto, con frammenti di midollo di sambuco e cocci di un vaso da notte l’immaginazione ricostruirà dei mondi» (Flaubert). Il sogno, e soprattutto il sogno dell’amore, ricostruisce dei mondi.
Achille Lauro lo sa. Infatti scrive, canta, progetta, costruisce, vive. Crea.
Sempre.
E spera. Che lei si rinnamori. Che lui si rinnamori.
(Magari) «A marzo».
Nei post e nelle stories che hanno accompagnato l’uscita di 16 marzo Achille Lauro è fotografato nei panni di un uccello rapace con artigli e accessori orientali.
Nel ringraziarlo per aver aderito al video progetto “IO RESTO A CASA” (coronavirus – covid19) realizzato insieme al direttore di questa testata, con le sue canzoni
“C’est la vie”, “Je t’aime”, “Sexy Ugly” e “Zucchero”
gli dedico una frase del mio Maestro con l’augurio, tra i tanti, che la nuova opera abbia il successo che merita:
«La vita grava su coloro che hanno le ali. Tanto più grandi sono le ali, quanto più doloroso è dispiegarle. I canarini in gabbia saltellano gioiosamente, ma le aquile hanno un’aria cupa, perché spezzano le loro penne contro le sbarre. Noi siamo tutti, più o meno, aquile o canarini, cocorite o avvoltoi. La dimensione di un’anima può essere misurata dalla sua sofferenza, così come viene calcolata la profondità di un fiume dalla sua corrente». Gustave Flaubert
16 marzo di Achille Lauro è in radio e su tutte le piattaforme digitali da oggi 3 aprile 2020.
Qui i video progetti che vedono la sua adesione:
https://youtu.be/_52VVWSN664 IO (RE)STO A CASA, NON ME NE FREGO
https://youtu.be/5zY9Y32vx-Q IO RESTO A CASA, MA NON MI FERMO
https://youtu.be/Hm1zpNvgpWA IO RESTO A CASA, È SOLO UN MOMENTO
https://youtu.be/aRhdyVBfVWk IO RESTO A CASA, (NON) SIAMO SOLI QUI
Dal libro Sono io Amleto di Achille Lauro, ed. Rizzoli 2018
David Bowie, fotogramma dal video di Absolute Beginners