Repubblica del 19 ottobre: “Il miraggio del Centro: i partiti lo cercano ma i voti sono altrove”.
Per le sue “Mappe” Ilvo Diamanti ha svolto un’analisi basata sui dati cumulati da tre sondaggi realizzati da Demos&PI per Repubblica: la ricerca era orientata, appunto, verso “il centro che non c’è” partendo da un punto di riflessione politica riguardante il fatto che da Italia Viva ad Azione a più Europa le formazioni che girano attorno a questo mitico “centro” sono tutte personalizzate o ancora provvisorie mentre a giudizio dell’autore (a mio avviso molto opinabile) Pd e M5S si sono spostati a sinistra, Lega e Fratelli d’Italia si sono allineati a destra e solo Forza Italia punta a stare nel mezzo.
In sostanza si rileverebbero, in assenza del cosiddetto “centro”, le condizioni per un nuovo bipolarismo: una situazione molto simile a quella del ‘94 con i progressisti a sinistra, al centro soggetti deboli (in allora Patto Segni e PPI, all’epoca però penalizzati fortemente dalla formula elettorale) e a destra la doppia alleanza Forza Italia/Lega Nord e Forza Italia/ MSI-AN.
I dati dell’analisi di Diamanti, basati sull’auto-collocazione politica degli interpellati, consentono spazio per una valutazione diversa, considerato anche che il sistema politico italiano più che di un “centro” sembra avere bisogno di “baricentro”, di una vera e propria ricerca di senso complessivo.
Proviamo allora a interpretare i dati forniti per il 2020.
Si riconoscono a sinistra il 14% degli interpellati, 16% centro – sinistra, 8% centro, 16% centro destra, 13% destra, esterni agli schieramenti il 34%.
A questo punto è necessario distinguere due elementi: quello della rappresentanza politica e quello del potenziale elettorale, considerando che una buona quota del 34% che si dichiara esterno agli schieramenti fa oggettivamente parte del “non voto” e quindi solo una porzione molto relativa ha fatto capo a movimenti “né di destra, né di sinistra” tipo il M5S.
Fatta salva la fortissima volatilità elettorale che ha caratterizzato gli ultimi turni elettorali prendiamo in esame per un momento i risultati delle ultime elezioni politiche (2018: le elezioni che hanno determinato la composizione dell’attuale parlamento. Composizione che ha subito in questi due anni moltissimi mutamenti nella formazione dei gruppi).
Dati riferiti al solo territorio nazionale: 46.505.350 iscritti, con 32.841.705 voti validi pari al 70,61%, quindi la non partecipazione complessiva al voto (compresa l’espressione di schede bianche e nulle) aveva assommato nell’occasione il 29,39%.
Sul totale degli iscritti nelle liste, il centrodestra aveva ottenuto una percentuale del 26,13% (nell’ambito di questo schieramento Forza Italia aveva avuto il 9,88%), il M5S il 23,07% ( il M5S andò a quelle elezioni proclamandosi né di destra, né di sinistra proseguendo poi nel corso della legislatura con la formazione di governi appoggiati su liste presenti negli opposti schieramenti), l’alleanza tra PD e formazioni minori definibili “centriste” il 16,14% (le formazioni minori centriste con il 2,89%), la sinistra (comprensiva delle liste di LeU e di Potere al Popolo) il 3,19%.
Ripeto: si tratta di dati assolutamente indicativi, non solo c’è da considerare il dato della fortissima volatilità elettorale (milioni di elettrici ed elettori appaiono ormai incapaci di votare la stessa lista per due elezioni di seguito) ma attorno al PD si sono verificate nel frattempo due scissioni di carattere “centrista” con Italia Viva e Azione.
In ogni caso possiamo tentare di individuare alcuni elementi che ci indichino come nel sistema politico italiano possano essere rilevate aree scoperte sia sul terreno della rappresentanza, sia nel senso più specificatamente elettorale.
L’interrogativo più rilevante riguarda il M5S: un enorme patrimonio di voti che va disfacendosi come già si è visto nelle elezioni europee del 2019 e in quelle regionali (parziali) del 2020.
Una parte del patrimonio elettorale accumulato dal M5S è andato, nelle due occasioni citate, ad alimentare la crescita dell’astensione: ma le elezioni politiche fanno sempre registrare una crescita nella partecipazione al voto rispetto alle europee e alle regionali ritenute meno appetibili da grandi masse di elettrici ed elettori.
Si tratterà allora di capire quali effetti si potranno avere se la presentazione di ciò che rimarrà presumibilmente del M5S dovesse risultare schierata in alleanza con il PD alle prossime elezioni politiche.
L’analisi di Diamanti assegna un 30% alla somma sinistra/centrosinistra che alle elezioni 2018 arrivò invece al 16,44%.
Un’alleanza sinistra/centrosinistra/M5S avrebbe quindi bisogno di almeno il 50% dell’elettorato di provenienza M5S per arrivare alla quota del 30% che l’analisi di Diamanti gli assegna. Un M5S spostato verso il centro – sinistra, dovrebbe quindi mantenere circa 5 milioni di voti: un’ipotesi molto improbabile stando agli atti.
In questo quadro c’è da tener conto della fortissima sotto rappresentazione della sinistra in tutte le sue articolazioni: nel 2018 si verificò una presentazione, quella di LeU, su posizioni sostanzialmente misurate sull’ipotesi di centrosinistra e un’altra presentazione, quella di PaP, di stampo movimentista di opposizione. La somma è stata , come abbiamo visto, del 3,19% sull’intero elettorato. Secondo i dati esposti da Diamanti appare evidente come una quota del 15% auto dichiaratosi di sinistra appartenga in parte anche ad entrambe le ipotesi schieratesi in contrapposizione nel 2018 .
Altrettanto evidente appare, di conseguenza, l’insufficienza di entrambi gli schieramenti presenti a sinistra, sia sul piano della rappresentanza politica sia di quello elettorale .
Da tener conto inoltre degli oltre 7 milioni di voti raccolti dal “NO” nel referendum costituzionale del 20 settembre 2020.
Logicamente in quella massa di voti (superiore alle previsioni) si sono intrecciate le opzioni le più diverse: ma la natura della consultazione e il pronunciamento di organismi di massa dichiaratamente collocati a sinistra come ARCI e ANPI oltre alla CGIL (più defilata) fanno pensare che la quota dei voti espressi da elettrici ed elettori collocati “a sinistra” (e che in gran parte considerano il PD soggetto “centrista”) risulti sicuramente superiore al 1.486.978 suffragi accumulati con la somma di LeU e PaP nelle elezioni 2018.
Questo richiama la necessità di apertura di una riflessione complessiva al riguardo di quello che appare un vero e proprio “vuoto”.
Riflessione che dovrebbe riguardare entrambi i poli, possibilmente aprendo un confronto tra (usando vecchi termini) movimentisti, massimalisti e miglioristi.
Le questioni in ballo sono di duplice natura:
1) La definizione di una soggettività politica orientativamente posta a dimensione di massa e capace di utilizzare tutte le possibilità a disposizione anche sul piano tecnologico. Una soggettività politica raccolta attorno ad una idea di vera e propria “costruzione a sinistra”. Costruzione necessaria per raggiungere un duplice obiettivo: quello di un recupero di possibile identità attorno ad un progetto capace di superare divisioni ormai antistoriche pur ancora presenti nell’attualità (è l’idea della sinistra costituzionale venuta avanti attraverso il “Dialogo Gramsci – Matteotti”); quello di una ricollocazione di carattere sistemico, da realizzarsi attorno ad un PD messo in condizione, considerata la possibilità di presenza alla sua sinistra, di sciogliere le ambiguità pregresse collocandosi al Centro, laddove potrà trovare affinità ideali più consone dismettendo finalmente l’armatura della “vocazione maggioritaria”. “Vocazione maggioritaria” che, dopo l’esperienza del 2008 e in assenza di una adeguata soggettività a sinistra ha finito con l’alimentare sia l’astensione, sia l’antipolitica del M5S. Anche l’exploit del PD (R) nelle elezioni europee 2014 era risultato, sul piano dei numeri assoluti, inferiore ai dati fatti registrare dal PD(W) nell’occasione della clamorosa sconfitta subita proprio nella tornata del 2008 appena ricordata (13 milioni di voti con IdV, contro 17 milioni del centro destra: più o meno le proporzioni del 18 aprile);
2) Un’adeguata rappresentazione elettorale richiamando a uno spazio ben individuato a sinistra, in modo da far recuperare a entrambi i filoni della sinistra una necessariamente unitaria dimensione elettorale e una conseguente indispensabile presenza istituzionale. Ciò potrà essere possibile soltanto attraverso una soggettività provvista di identità e di autonomia culturale, capace di portare avanti un progetto comune delle cui linee di indirizzo dovrebbe essere già avviata la discussione.
Lo spazio c’è, lo dimostrano anche questi dati ma di tempo a disposizione ne disponiamo ormai in una misura molto ridotta.