News29 ottobre 2020 06:40

Ferruccio Sansa: viaggio nell'ospedale San Martino

Il consigliere di opposizione raccoglie nel policlinico genovese nove proposte di medici e infermieri per fronteggiare l'emergenza sanitaria

Ferruccio Sansa: viaggio nell'ospedale San Martino

"Che cosa posso fare nella battaglia contro il Covid? Ce lo chiediamo tutti in questi giorni.

Come consiglieri regionali abbiamo la facoltà di compiere visite ispettive negli ospedali. Così oggi (ieri per chi legge, ndr) sono andato a visitare San Martino, a Genova, la prima linea della lotta al virus in Liguria.

Sono entrato nel pronto soccorso, nelle corsie, nei reparti dove sono curati i malati di Covid. Ho parlato con decine di medici, infermieri, oss, barellieri.

Ho ascoltato i malati.

Qui di seguito trovate il racconto di ciò che ho visto. Non vuole essere un atto di accusa, una polemica.

È una testimonianza per rendere atto ai sanitari che rischiano la vita per curarsi. Sono proposte concrete raccolte tra chi lavora in corsia (le trovate tutte in fondo). E’ un tentativo di rispondere ai tanti liguri - malati, e non solo - che in preda allo smarrimento si chiedono cosa accade nei nostri ospedali.

Che non sanno se le strutture sono ancora in grado di fornire terapie per curare il Covid e altre patologie."


“Sono disperata, sono affranta, sono uscita adesso dallo spogliatoio... dodici ore di seguito... non ho avuto il tempo di fare la pipì di mangiare, di bere... è un inferno lì dentro, non ce la facciamo più”. Luisa, il nome è di fantasia, ha tenuto duro per tutto il turno, non ha mai tradito un’emozione parlando con colleghi e malati. Ma appena le rivolgi la parola nel parcheggio accanto a San Martino si scioglie. Le cade la borsetta di mano. Non smette di parlare. Fa l’infermiera da tanti anni nell’ospedale più grande della Liguria, ma per la prima volta sembra vicina a cedere: “Quando torno a casa passo ore a piangere, i miei famigliari mi guardano in silenzio, ma non possono capire cosa ho visto”.
Già, il pronto soccorso, la prima linea contro il Covid. Una fatica massacrante per medici e infermieri. Ieri è andata appena meglio che nei giorni scorsi. Non c’è stato l’intasamento che ha portato in diverse occasioni addirittura a fermare le ambulanze che formavano una coda davanti all’ospedale.
Sono le 11.45 di oggi quando entriamo. Si chiude la porta e i rumori della città che cerca nonostante tutto di vivere scompaiono. Siamo nella trincea del Covid. Un altro mondo: decine di barelle e lettighe sistemate lungo i corridoi. Sono malati di Covid, li riconosci dall’apparecchio disposto accanto che misura i valori del ritmo cardiaco e della saturazione. Li riconosci dagli sguardi angosciati che lanciano a quei numeri cui è appesa la loro diagnosi. Cifre che salgono e scendono insieme con il respiro accelerato dalla malattia e dallo smarrimento. Una, due, dieci barelle. Sono dappertutto: dietro il vetro di una stanzetta, oltre un paravento da cui arrivano sussurri e pianti, perfino tra le macchinette del caffé.
E’ l’affanno quasi disperato dei nostri pronti soccorsi, un male noto da anni. Ma oggi esplode per colpa del Covid: bisogna separare i malati, dividere i percorsi, salvare i pazienti sani e i sanitari dal contagio.
Intorno c’è silenzio, si parla istintivamente a bassa voce, si cammina con cautela. Emerge lentamente un rumore continuo: quello delle bombole a ossigeno. Quasi non le riconosci le persone, i volti sono stravolti dai caschi e delle maschere per respirare. Persone anziane, certo, ma anche tanti uomini di mezza età. Perfino giovani. Ti guardano, cercano di sorridere forse soprattutto per rassicurare se stessi.
Il Covid lo senti in questo rumore continuo, nell’aria che sa di ossigeno. Ti pare di vederlo.
Medici e infermieri si muovono in continuazione. Se chiedi loro da quanto tempo siano qui ti fanno un segno con le mani: 8, 10, 12... sono le ore. Altri scrollano semplicemente la testa.
E gli altri malati, quelli che arrivano qui per incidenti stradali, ictus, infarti? Sono nella stanza accanto, a una decine di metri di distanza, senza una porta o un divisorio. Non si può fare altrimenti, ma i medici assicurano che non c’è rischio di contagio. Tutte le misure sono rispettate scrupolosamente.
Non c’è bisogno di chiedere numeri e statistiche, di domandare se la situazione sia grave. Ma se dovesse peggiorare ancora come in Francia e in Spagna? “L’unica soluzione sarebbe il lockdown. Oppure questo dovrebbe diventare un ospedale soltanto per il Covid”, allarga le braccia un medico. Più di così, con queste strutture e questo personale non si può fare. Ma almeno i presidi ci sono? “Sì, finora abbiamo caschi e respiratori. Abbiamo ancora posti liberi in terapia intensiva”. Non è un atto d’accusa, a questo punto non interessa a nessuno: “A San Martino stiamo meglio che in altri ospedali. Le colpe semmai”, dice una donna in camice, “si sono accumulate negli anni. Oggi si può fare ben poco”. Ma non avete paura per voi? “L’ho già preso, sei mesi fa. Ma non si sa niente, potrei anche riprenderlo...”, racconta un medico. “Certo che ci penso, ma non posso farci niente se non prendere precauzioni”, scrolla la testa un’infermiera spruzzandosi per la decima volta il cloro sulle scarpe.
Tracciare un confine nell’aria. È la sfida durissima degli ospedali. Ma camminando nei viali degli ospedali medici e infermieri si avvicinano. Raccontano che, sì, qualcosa si poteva fare: “I concorsi per assumere altri infermieri. Adesso li hanno fatti, stanno chiamando nuovo personale, ma perché hanno dovuto aspettare dopo l’estate? Si sapeva che doveva arrivare una seconda ondata. Finora abbiamo retto, siamo riusciti a curare tutti in modo appropriato, ma a fine ottobre siamo già al collasso... ed è appena cominciata”.
Il problema non sono soltanto loro, i malati di Covid che tirano il fiato con i denti e ti fanno sentire il desiderio impossibile di passargli un poco dell’aria che tu respiri. Sono anche gli altri pazienti. “Hanno deciso di chiudere uno dei reparti di neurologia. Gli infermieri sono stati inviati nei reparti Covid. Va bene, lo posso capire, ma ci sono persone colpite da ictus che sono state mandate nel pronto soccorso, che stanno giorni e giorni nei corridoi dell’Obi (Osservazione Breve Intensiva)”, sbotta un medico. Subito si affretta a precisare: “Non è colpa dei medici, per carità, ci sono miei colleghi che lavorano venti ore al giorno e ho paura che gli venga un infarto. Non mi interessano le colpe. Ma così non è possibile”.
Neurologia, ma anche oncologia. Nel grande palazzo di vetro e cemento, così luccicante che a volte sembra nascondere il dolore, quasi sembra un giorno come gli altri. Se non fosse per lo sguardo di medici, infermieri e oss, vitreo per la stanchezza. Dicono che le prestazioni ai malati di tumore sono tutte garantite? “Vorrei dirle che è così, ma non è vero. Non è così da mesi”, il tono del medico nel corridoio si fa aspro. “E’ la rabbia, mi perdoni”. Cosa succede? “Abbiamo accumulato un ritardo con l’imaging... voglio dire con esami come Pet, Tac e Risonanze. E anche le terapie... a volte non possiamo fare quelle più appropriate. C’è un problema nella diagnosi e nella terapia. A volte magari non cambia niente, ma in altri casi... non mi ci faccia pensare. Mi scusi se mi accaloro”. Ma si figuri. “Il punto è che noi dobbiamo fare un calcolo: a un malato conviene venire qui ed esporsi al rischio del contagio oppure ritardare le diagnosi, la scelta della terapia più adeguata? In molti casi la scelta giusta è attendere... ma per qualcuno... vabbé, ha capito”. C’è un senso di impotenza e di rabbia nelle parole dell’oncologo: “D’accordo, è una situazione eccezionale. Ma chi organizza l’ospedale deve consultare noi, i medici, gli infermieri, gli oss. Ognuno di noi ha dei consigli preziosi da dare”. Uno viene ripetuto da diversi medici dell’Ist: mancano i medici per le guardie, così gli oncologi devono essere utilizzati per questo servizio. Risultato: “Non ci sono abbastanza sanitari per gli esami diagnostici e le terapie”.
Impotenza e rabbia: “Abbiamo chiesto da tempo una soluzione, ma non ci rispondono”.
Già, la sensazione di essere soli. La stessa che trovi parlando con medici e infermieri di altri reparti. “A marzo - raccontano a nefrologia - la Asl forniva un servizio essenziale: il tampone a casa per i dializzati. Così evitavamo il rischio terribile che dei positivi venissero in reparto e contagiassero gli altri dializzati”. Oggi quel servizio non è più fornito. “Hanno smesso di fornirlo senza dire niente”. Ma avete provato a chiedere informazioni? “Sì, ma non abbiamo ottenuto risposta dalla Asl”. Così il reparto già diviso in due - una parte destinata ai dializzati sani e una per i positivi - ora deve accogliere anche dializzati che presentano sintomi sospetti. Devono fare qui il tampone e attendere il risultato, perché mancano i tamponi istantanei (li hanno solo al pronto soccorso) che sarebbero essenziali.
Di chi sono le colpe? “Quello che manca è il territorio. L’ospedale diventa il terminale di tutto ed esplode. Il trenta per cento delle persone che arrivano qui potrebbe essere curato a casa. Ma chi si ammala di Covid è solo, non sa a chi rivolgersi perché la Asl non ha risorse, uomini e mezzi. E i medici di famiglia sono in tilt”, suggerisce più di un medico.
Nessuno, però, ci tiene a indicare colpevoli. Adesso a tutti interessano le soluzioni: “La situazione è scappata di mano, il virus è dappertutto. Dovevamo pensarci prima, quando si poteva fare ancora un tracciamento efficace. Ora dobbiamo unire tutti le forze e ascoltare la voce di chi vive e lavora nella corsie. Ditelo a chi sta fuori: la situazione è grave, molto grave. Ma noi ci siamo e non lasciamo solo nessuno. Voi, però, non abbandonateci”, si congeda un medico. Alle sue spalle un poster con il volto di un infermiere e la scritta “Grazie!”. Roba di qualche mese fa. È già sbiadito.

LE PROPOSTE RACCOLTE TRA GLI OPERATORI (medici, infermieri, oss, barellieri, conducenti di ambulanze)

1. Il 26 novembre è la data di laurea di molti infermieri. Occorre avviare immediatamente la procedura per assumerli, prima che altre regioni li arruolino.

2. Occorre creare doppi reparti - per positivi e negativi - per ogni specialità

3. Bisogna effettuare tamponi a domicilio per dializzati e per tutte le patologie che richiedono ricoveri ricorrenti in ospedale

4. I reparti devono disporre di tamponi rapidi per evitare di far accedere persone che potrebbero essere positive

5. Occorre predisporre un servizio più efficiente di ambulanze per malati (dializzati, ma non solo) positivi. Altrimenti rischiano di dover attendere ore in corsia prima di poter tornare a casa

6. È necessario garantire i servizi di guardia medica per reparti come oncologia perché altrimenti i sanitari non riescono più a svolgere i loro compiti (visite ambulatoriali, diagnostica, terapie in day hospital)

7. Occorre separare in maniera più efficace i percorsi sporchi (quelli utilizzati dai malati di Covid), da quelli puliti. Ci sono ancora troppi incroci ‘pericolosi’

8. Quando si predispongono nuove soluzioni organizzative occorre consultare maggiormente gli operatori sanitari

9. La Asl deve fornire risposte ai medici che segnalano i loro problemi.

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