Il 22 febbraio è stata data notizia della morte, nel padovano, di Adriano Trevisan di Vo’ Euganeo, e l’Italia era da due giorni in apprensione per le sorti di quello che allora chiamavamo tutti solo Mattia, il paziente zero 38enne di Codogno ricoverato in condizioni gravissime.
Mattia si è salvato, non così suo padre che è morto un mese dopo.
Da quel 22 febbraio a tenerci macabra compagnia è stato il bollettino della protezione civile, ogni giorno contagi, ricoveri e morti.
E i morti non hanno più avuto un nome.
Qualcuno ci ha provato, a dedicare qualche pagina di giornale alle loro storie, alle loro vite.
Ma eran troppi, e alla fine la maggior parte di loro sono stati solo numeri su un bollettino perennemente contestato: morti per covid, morti col covid, in ogni caso la maggior parte di loro se il covid non fosse mai esistito sarebbero ancora vivi.
Poi ci sono tutti gli altri: i morti sul lavoro, una curva tragica che ha declinato nei mesi del lockdown per risalire subito dopo.
I morti di tumore, di infarti, di ictus, di malattie di cui non conosciamo il nome né la cura.
Quelli che ci sono tutti gli anni, e tutti gli anni sono senza nome se non per le famiglie che li piangono.
Oggi a Quiliano due ragazzi son morti sotto un treno, mentre attraversavano i binari per andare chissà dove: forse in Francia.
Altri nomi che non conosciamo, anzi non sappiamo neppure la loro nazionalità: qualcuno scrive stranieri, qualcuno extracomunitari, qualcuno “forse curdi”.
Forse se non fossero morti a Quiliano neppure l’avremmo saputo, che una carovana di dieci stranieri attraversava i binari e un treno ne ha falciati due.
Non sappiamo i nomi di chi muore nei campi di concentramento della Libia a pochi chilometri da noi, né di chi annega nel nostro mare cercando una nuova vita.
Sappiamo solo che non siamo tutti sulla stessa barca, anche se tutti finiamo nel medesimo posto.
Che forse si chiama paradiso, ma neppure di quello sappiamo il nome con certezza.