La prima risposta concreta all’invasione dell’Ucraina è stata quella della proposta di riarmo della Germania, intenzionata a portare le spese militari al 2% del PIL.
Analogo intendimento è stato espresso dall’Italia le cui forze armate, in determinati settori, appaiono tecnologicamente piuttosto arretrate, specialmente se il quadro strategico complessivo dovesse davvero dirigersi verso una aggiornata riedizione della guerra fredda e della logica dei blocchi.
Allora si possono tentare alcune considerazioni affrettate a approssimative:
1) Sicuramente si verificherà uno spostamento di risorse arretrando da subito a favore dei processi di riarmo il procedere delle due grandi transizioni quella ecologica (verso la quale si profila un combinato: crisi energetica/esigenze militari) e quella digitale. Questo fatto inciderà, a livello europeo, sul Recovery Fund che l’Italia sta faticosamente tentando di tradurre nel PNRR. Situazione internazionale e spostamento di risorse interne incideranno sicuramente anche su altre filiere produttive prima fra tutte quella agroalimentare (ricordate il Pertini del “si svuotino gli arsenali e si riempano i granai”: la storia del rapporto burro/cannoni è sempre stata strettamente correlata);
2) Sullo slancio del riarmo della Germania si sta tentando da più parti di rilanciare l’ipotesi del cosiddetto “esercito europeo”. Attorno a questa idea sorgono questioni molto complesse, prima fra tutte quella riguardante il controllo politico di questo ipotetico nucleo di forza armata in una situazione nella quale l’UE continua a soffrire di un forte “deficit democratico”. Sorgerebbe anche un problema non facilmente risolvibile di equilibrio tra la costruzione di questa ipotetica “difesa europea” e il mantenimento degli eserciti nazionali (tenuto conto anche della presenza nell'Unione di diversi Paesi governati da "democrature").
3) L’idea della necessità di accelerare la corsa al riarmo si tradurrà probabilmente in una crescita di profitti per i giganti del settore con relativa concentrazione di profitti e di intelligenza tecnologica.
In un suo rapporto l’ “European network against arms trade” (anticipato da “Domani”) fa notare come i giganti dell’industria bellica di Francia, Germania, Italia, Spagna trattengono il 70% dei fondi UE del settore e coordinano il 68% dei progetti.
Il fondo per la difesa europea 2021-2027 ha una dotazione di 8 miliardi ( i primi programmi a partire dal 2009, trattato di Lisbona, non arrivavano al miliardo) “per ricerca e sviluppo di prodotti militari”.
Il report di Enaat su “come l’UE sta alimentando una corsa agli armamenti” prende in esame i progetti pilota: 90 milioni dell’ azione preparatoria per la ricerca sulla difesa (Padr) e il mezzo miliardo del programma per lo sviluppo industriale della difesa (Edidp).
I principali beneficiari sono Leonardo (23,6 milioni) la spagnola Indra (22,8) e la francese Safran (22,3). Se si considerano anche le aziende sussidiarie, Leonardo, Thales (francese) e la multinazionale Airbus ricevono altre cifre molto importanti: Leonardo 29 milioni.
Il sistema è fatto per favorire pochi colossi privati raggrumando anche la proprietà intellettuale: lo spazio di difesa europea nasce quindi in una situazione di deficit democratico e di concentrazione di risorse economiche e di “know-how”.
Ci troviamo in una situazione di pieno rispetto della tradizione storica dell’opacità che ha sempre riguardato il complesso del “militare” e delle logiche di guerra da sempre gestite da soggetti e in dimensioni ai margini della democrazia.