Nei giorni seguenti si verificarono altri arresti di esponenti dello stesso PSI e della DC: alla fine del processo quasi tutti gli imputati furono condannati per corruzione e associazione a delinquere semplice (non fu riconosciuto lo “stampo mafioso”): risultarono assolti l’ex-deputato socialista Paolo Caviglia e il sindaco di Borghetto Santo Spirito, l’architetto Bovio, iscritto al PCI.
Al momento dell’arresto Teardo si trovava al centro di una campagna elettorale che, con ogni probabilità, lo avrebbe portato in Parlamento, dopo l’esperienza di assessore e di presidente della Regione Liguria: un fatto che cadde come una vera e propria “bomba” sull’intero sistema politico savonese, squassandolo violentemente; eppure quasi nessuno volle riconoscere la dimensione nazionale di quell’episodio che risultava, invece, essere assolutamente anticipatore di “Tangentopoli”.
Teardo era già al centro da qualche tempo, anche grazie alle denunce avanzate proprio dall’avv. Trivelloni, di un forte polemica politica legata alla “questione morale”: polemica politica rafforzata, nel 1981, allorquando il magistrato Gherardo Colombo sequestrò, a Castiglion Fibocchi in provincia di Arezzo, le liste degli appartenenti alla loggia massonica segreta P2 guidata da Licio Gelli. In quegli elenchi assieme a quelli di Silvio Berlusconi, Fabrizio Cicchitto, di generali, uomini politici, uomini d’affari, giornalisti, personaggi dello spettacolo figurava anche il nome di Alberto Teardo.
Pochi, sul piano politico, risposero appieno a quelle denunce e a quegli appelli: sul piano savonese e regionale, lo scrivo senza alcuna velleità di attribuire patenti di esclusività nel merito, soltanto il PdUP e la Sinistra Indipendente, oltre a qualche esponente del PCI e della CGIL, ma in una misura numericamente del tutto ridotta.
In quest’occasione ci si è limitati a riassumere i dati politici più importanti di quella vicenda, proprio per offrire a chi visse in prima persona quella vicenda e a chi, magari, ne sente parlare per la prima volta, alcuni elementi di ricordo, valutazione, riflessione.
La configurazione di quei fatti e il tipo di problemi che, in allora, si posero alle forze politiche, avrebbero dovuto promuovere un ragionamento in profondità, da svilupparsi proprio mentre si stavano scoprendo i diversi tasselli istituzionali.
Com’era configurabile il fenomeno concreto con il quale ci trovammo a dover fare i conti?
La “questione morale savonese” presentava, rispetto ad altri fenomeni evidenziatisi proprio in quel periodo, come il caso “Biffi Gentili” a Torino (laddove fu il sindaco Novelli ad attivare il meccanismo di riferimento alla magistratura), elementi di assoluta originalità.
Si trattava infatti dell’esistenza, non tanto e non solo di una “centrale” collettrice di tangenti, ma di un fenomeno di contropotere organizzato in cui erano poteri extra-legali (appunto le logge massoniche “coperte”) a determinare gli assetti politici e gli atti concreti della Pubblica Amministrazione al di fuori da qualsiasi possibilità di controllo democratico.
Lo stesso rapporto con la società che era stato instaurato da questo potere extra-legale non risultava essere di natura classicamente clientelare (per cui si sarebbe potuto parlare semplicemente di reciproco favoritismo tra società civile e ceto politico) ma si trattava, invece, di un fenomeno di vera e propria “progettualità criminale” che puntava a contaminare (realizzando l’obiettivo) i diversi settori della politica, delle professioni, dello stesso mondo del lavoro.
Era quello il punto, che riconosciuto adeguatamente, avrebbe dovuto portare da subito a considerare Savona un “caso nazionale”.
Quali erano, allora, i terreni di coltura del progetto criminale?
La prima condizione era stata costituita dal progressivo decadimento dell’economia e della struttura produttiva del savonese.
Su questo punto ancor oggi e sulla base di esperienze successive che con Luciano Angelini abbiamo analizzato nella "Miccia Ritrovata" (testo pubblicato nel 2020) dovrebbero essere analizzate le responsabilità di quanti promossero un vero e proprio feroce processo di deindustrializzazione del nostro territorio.
Va affermato ancora oggi con chiarezza: la sinistra di governo non seppe riconoscere, qui in Liguria, il fenomeno nella sua vastità e nella sua dirompenza, non riuscendo a legare un progetto preciso di difesa e rinnovamento della vocazione industriale della Città a un progetto precisa relazione con un terreno di nuova qualità dello sviluppo che pure, all’epoca, poteva essere possibile se pensiamo alle esigenze di modernizzazione (mai realizzate) delle infrastrutture e di un coerente uso del territorio.
E’ stato, all’epoca, il processo di deindustrializzazione il punto vero di copertura dell’intreccio politica – affari.
Un processo di deindustrializzazione la cui finalità ultima, come puntualmente fu verificato negli anni successivi, era quello di un tragico scambio: liberazione delle aree/ speculazione edilizia.
A questa prima condizione se ne collegò un’altra che riguardava il tema delle basi strutturali sulle quali si erano realizzate, negli Enti Locali, le alleanze politiche.
La strategia delle cosiddette “giunte bilanciate”, attuata in Liguria ma anche in altre parti del territorio nazionale, da DC e PSI assunse un aspetto del tutto particolare: non soltanto di copertura dell’intreccio fra politica e affari ma come sanzione (direi quasi come terminale) dell’aspetto più pericoloso di tutta questa storia e che va ribadito, dopo essere stato già indicato poco sopra: quello delle assunzioni delle decisioni politiche in sedi extra-legali come le logge massoniche segrete e al di fuori da ogni possibilità di controllo democratico.
Il PCI anche a livello nazionale reagì in maniera che ancor oggi può essere considerata inadeguata alla vastità e alla profondità del fenomeno: “Rinascita” si limitò a scrivere di una “macchia nera su di un vestito bianco” e nulla di più.
Quel che è certo, e che deve essere ribadito , fu l’aprirsi di un vero e proprio “varco”, di una codifica della separatezza tra la gestione della cosa pubblica a livello locale e gli interessi e i bisogni della popolazione.
In quel modo le forze politiche, adagiate sul terreno della governabilità, favorirono un processo di spostamento dal collettivo all’individuale nel soddisfacimento dei bisogni, la creazione di un’illusoria “società affluente” con il “privato” al centro di tutto e la “questione morale” resa quasi funzionale a una falsa idea dello sviluppo.
Nel caso savonese d’inizio anni’80 questi elementi c’erano già tutti, a volerli vedere e analizzare: non fu fatto per negligenza e colpa.
Oggi, a distanza di tanti anni, quel ragionamento si ripropone non certo per fare semplicemente storia o per mettere retrospettivamente ciascun tassello al proprio posto : l’emergenza morale e democratica appare davvero drammatica e forse questo ricordo può aiutare a non perdere tempo ulteriore nel progettare un’alternativa.