La direzione del PD ha assunto il 27 febbraio l'impegno a votare sì nei quesiti referendari sul tema del lavoro promossi dalla CGIL e questo rappresenta un fatto politico importante.
Tuttavia nel dibattito sono apparse voci contrastanti levatesi addirittura in nome di una considerazione della CGIL come "sindacato estremista".
E' il caso allora di entrare nel merito dei quesiti (ricordando ancora una volta che ne esiste un quinto sulla riduzione dei termini di acquisizione della cittadinanza italiana) e cercare le ragioni di merito per votare e votare sì.
In premessa è necessario ribadire che occorre un approccio radicale alle questioni del lavoro perchè la questione di fondo che il referendum pone è quella del ruolo del lavoro nella crisi della democrazia italiana.
La destra con chiarezza manda messaggi retrogradi, qualcuno li ha paragonati al tempo precedente alla rivoluzione industriale.
Con chiarezza vanno mandati messaggi progressisti.
In questo quadro vanno analizzati i quesiti
ABROGAZIONE DEL JOBS ACT
Il referendum mira ad abrogare il d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, noto come Jobs Act.
Si può tranquillamente affermare che il d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 ha introdotto un vero e proprio attacco per via legislativa al mondo del lavoro.
Il Jobs Act, in un colpo solo
Ha eliminato quasi del tutto il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro (lasciandolo solo in pochi casi in cui un lavoratore fosse accusato di un fatto del tutto insussistente);
ha forfettizzato e ridotto il risarcimento a favore del lavoratore stabilendolo in due mensilità per ogni biennio di servizio, con un minimo di 4 mensilità e un massimo di 24.
In sostanza: un lavoratore fino a 4 anni di servizio non poteva che ricevere un risarcimento di 4 mesi di retribuzione, quale che fosse la gravità della condotta del datore di lavoro..
Lo Statuto dei lavoratori (L. 300/70), con il famoso art. 18, prevedeva che il lavoratore licenziato ingiustamente avesse sempre diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro.
Questa norma aveva segnato un passaggio di civiltà nel diritto del lavoro, in quanto muove dal principio che il posto di lavoro appartiene anzitutto al lavoratore e che la vita di chi lavora è sottratta al sopruso di chi detiene i mezzi di produzione.
L’art. 18, assieme alla scala mobile, era il punto di forza politico del mondo del lavoro.
Il licenziamento nelle piccole imprese
Questo quesito, collegato al precedente, riguarda le sanzioni imposte al datore di lavoro nel caso in cui un Tribunale dichiari ingiusto un licenziamento adottato da una piccola impresa con meno di 15 dipendenti.
Al momento la legge 604/66 prevede solo una tutela risarcitoria con un massimo di 6 mensilità.
Si tratta di una norma da sempre discutibile, tanto che la mancanza di adeguata tutela dei lavoratori delle piccole imprese fu uno dei motivi dell' astensione del PCI sulla legge istituiva dello Statuto dei Lavoratori.
L’inadeguatezza della norma è stata segnalata anche dalla Corte Costituzionale (sentenza. N. 183/22) che ha precisato che “Tali esigenze di effettività e di adeguatezza [che riguardano il licenziamento in generale NDA] della tutela si impongono anche per i licenziamenti intimati da datori di lavoro di più piccole dimensioni (di cui ai citati commi ottavo e nono dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori)”. Perciò la Consulta ha chiesto al legislatore di intervenire, senza però ottenere efffetto alcuno.Il referendum propone di eliminare la soglia massima del risarcimento, consentendo così al Giudice di adottare un risarcimento superiore.
Contratti a termine
Se vi fosse sincerità la questione dei contratti a tempo determinato sarebbe semplicissima. Vanno applicati per i picchi di produzione. I tentativi di liberalizzazione altro non sono che il sogno di addossare sui lavoratori il rischio della programmazione del lavoro e della produzione. Ebbene, il referendum mira a ripristinare le causali rigide da imporre dal primo giorno.
Appalti e Sicurezza
Il referendum interviene sull’ art. 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81.
La disposizione normativa è il testo unico sulla sicurezza e l’art. 26 si occupa di “Obblighi connessi ai contratti d’appalto o d’opera o di somministrazione”.
In particolare, il comma 4 dell’art. 26 prevede che
“l’imprenditore committente risponde in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, per tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dall’appaltatore o dal subappaltatore, non risulti indennizzato ad opera dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) o dell’Istituto di previdenza per il settore marittimo (IPSEMA). Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.”
Il referendum vuol abrogare l’ultima parte dell’art. 26 comma 4 che dice: “Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.”. Questa disposizione esenta il committente per il danno riconducibile all’attività specifica svolta dall’appaltatore, sicché l’obiettivo del referendum è di estendere al Committente ogni ipotesi di responsabilità per danno differenziale dovuto al dipendente dell’appaltatore
Il referendum deve però servire anche stigmatizzare la funzione principale degli appalti.
Gli appalti sono uno strumento di peggioramento delle condizioni di lavoro. Il motivo principale – dichiarato, pensato, taciuto, o magari ignorato anche da committenti che seguono solo il flusso delle cose o i consigli dei loro consulenti del lavoro – è indebolire i lavoratori senza perdere il controllo della produzione.
Il riferimento è all’art. 29 dlgs 276/03 che in un colpo solo ha distrutto il contratto di appalto, quello serio
Ai sensi dell’art. 1655 c.c. con il contratto di appalto l’appaltatore “assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro. “.
Ebbene, l’art. 29 dlgs 276/03 ha previsto che l’organizzazione dei mezzi necessari può risultare “dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto,”.
Da allora sono proliferati appalti in cui l’appaltatore non conferisce nulla. In molti casi l’appaltatore altro non è che un commercialista che realizza buste paga, ma anche dove l’appaltatore che organizza il lavoratori non è quello che vende davvero. Il committente paga la possibilità di poter mantenere il potere sulla produzione senza doversi addossare i diritti dei lavoratori.
Occorre cambiare il funzionamento del sistema.
L’Appalto (che non poche volte è collegato alle tragedie degli infortuni e delle morti sul lavoro) deve essere consentito solo quando l’appaltatore dia un contributo materiale notevole e il committente dimostri di non poterne fare fronte con la sua organizzazione.